“In quel tempo nacque Mosè e piacque a Dio; egli fu allevato per tre mesi nella casa paterna, poi, essendo stato esposto, lo raccolse la figlia del faraone e lo allevò come figlio. Così Mosè venne istruito in tutta la sapienza degli Egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere. Quando stava per compiere i quarant’anni, gli venne l’idea di far visita ai suoi fratelli, i figli di Israele, e vedendone uno trattato ingiustamente, ne prese le difese e vendicò l’oppresso, uccidendo l’Egiziano. Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero. Il giorno dopo si presentò in mezzo a loro mentre stavano litigando e si adoperò per metterli d’accordo, dicendo: Siete fratelli; perché vi insultate l’un l’altro? Ma quello che maltrattava il vicino lo respinse, dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice sopra di noi? Vuoi forse uccidermi, come hai ucciso ieri l’Egiziano? Fuggì via Mosè a queste parole, e andò ad abitare nella terra di Madian, dove ebbe due figli. Passati quarant’anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente. Mosè rimase stupito di questa visione; e mentre si avvicinava per veder meglio, si udì la voce del Signore: Io sono il Dio dei tuoi padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Esterrefatto, Mosè non osava guardare. Allora il Signore gli disse: Togliti dai piedi i calzari, perché il luogo in cui stai è terra santa. Ho visto l’afflizione del mio popolo in Egitto, ho udito il loro gemito e sono sceso a liberarli; ed ora vieni, ti mando in Egitto. [...] Egli li fece uscire, compiendo miracoli e prodigi nella terra d’Egitto, nel Mare Rosso, e nel deserto per quarant’anni. Egli è quel Mosè che disse ai figli d’Israele: Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me. Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi”. (Atti 7, 20-38)
Se oggi, all’inizio di questo nuovo cammino, qualcuno ci fermasse e ci ponesse alcune brevissime domande: “Chi sei? Sono trascorsi tutti questi anni da quando sei nato: chi sei ora?” Che reazione avremmo? Probabilmente la domanda si tramuterebbe subito in “Dove sei oggi? Dove sei arrivato e come ci sei arrivato?”; sapremmo rispondere?
Sono domande che presuppongono una conoscenza di noi stessi, conoscenza che non possiamo dare per scontata ma anzi frutto di un viaggio alla scoperta di noi stessi per il quale oggi ci viene in aiuto una figura che questo viaggio l’ha già percorso e che poi ha condotto attraverso di esso, tutto il popolo di Israele: Mosè.
Mosè nasce da genitori ebrei, schiavi in Egitto, i quali per salvargli la vita, lo abbandonano nelle acque del Nilo. Salvato della figlia del Faraone, viene cresciuto e istruito secondo i canoni egiziani, pertanto se avessimo incontrato Mosè quando aveva 40 anni e gli avessimo chiesto: “Tu chi sei?”, Mosè avrebbe risposto: “Sono il Principe d’Egitto”. Ecco la prima identità di Mosè.
A 40 anni, però, Mosè scopre le sue vere origini: è figlio di ebrei, gli stessi ebrei che si trovano sotto la sua schiavitù. Questa scoperta provoca uno squarcio irreversibile nella sua persona, e compie ciò che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare: uccide un uomo! Ma non un uomo qualsiasi: un egiziano! Assalito dalla tentazione della violenza, arriva ad uccidere uno come lui! É presumibile che lo abbia fatto perché ha capito di essere un ebreo e in quanto tale vuole porre fine alle ingiustizie e ai soprusi inferti ai suoi simili. Se dopo questo evento, qualcuno gli avesse chiesto: “Tu chi sei?”, Mosè avrebbe risposto “Sono un Ebreo”. Ecco la sua “seconda identità”.
Nei giorni successivi, vedendo due ebrei litigare, Mosè interviene per riappacificare quelli che ormai considera suoi fratelli, ma riceve una risposta che è la fine del suo fragile delirio di onnipotenza: “Vuoi forse fare a noi quello che hai fatto all’egiziano?” Subisce un nuovo squarcio: il suo ruolo, la sua identità che credeva trovata, si frantumano di nuovo perché non sono ciò che credeva.
Non sapendo più con chi identificarsi, Mosè fugge. Dà inizio a una nuova identità, contrassegnata dalla fuga nel deserto, dall’incontro con quella che sarà sua moglie e dalla vita tranquilla: niente più sorprese, niente pericoli. Se qualcuno, in quel momento, gli avesse chiesto: “Tu chi sei?”, Mosè avrebbe risposto “Sono un nomade”. Ecco la sua “terza identità”.
Sappiamo, però, che proprio quest’ultima identità, da lui costruita, non sarà l’ultima: “Passati quarant’anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente” (At 7,30). È qui che Mosè scopre l’iniziativa di Dio e capisce che Dio è interessato a Lui e scopre una nuova identità: quando il Signore lo sceglie, Mosè scopre la sua vera identità.
E’ evidente che il suo ruolo nella società e la sua identità siano stati conformati e stabiliti sulla base dell’ambiente a cui è appartenuto e alle persone che lo hanno circondato in un dato momento.
Quante volte, nel corso della nostra vita o anche in uno stesso momento, siamo più di una persona? Tra gli affetti, al lavoro, in tutti i contesti che viviamo…quante persone siamo? E qual è quella vera? E quante volte a una di queste tante persone ci siamo “appoggiati”, fingendo di essere davvero in quel modo, perché è più facile, perché ci fa sentire meglio, perché non ci costringe a distruggere le nostre convinzioni?
Nessuno di noi, però, si è “fatto da solo”. Nessuno ha scelto dove nascere, quando nascere, in quale ambiente, famiglia, situazione. Non sembriamo tutti un pò come Mosè? Si nasce in un ambiente, si cresce in un altro, e quotidianamente veniamo a contatto con ambienti diversi. Come ci sentiamo? Lasciamo tradizioni, ne acquisiamo altre, cambiamo riferimenti, amicizie, capi, gruppi, e ogni volta questo ci chiede qualcosa di diverso. Questo continuo peregrinare, cosa fa di noi?
Un esempio opposto a quello di Mosè, un esempio di qualcuno che in realtà aveva chiaro chi fosse, è San Lorenzo Martire. I romani lo conoscono bene, poiché è stato uno dei primi diaconi della nascente chiesa romana.
Dopo un’infanzia tranquilla in Spagna, si trasferì a Saragoza per i suoi studi e lì conobbe il futuro Papa Sisto II, che impressionato dalla sua bravura, decise di portarlo con sé a Roma e successivamente di affidargli la cura dei poveri, degli orfani delle vedove e dei tesori della Chiesa, servizio a cui Lorenzo si dedicò con amore e dedizione. Ci troviamo nel periodo delle persecuzioni dell’impero alla Chiesa di Roma e proprio di una persecuzione di Valeriano ai capi della Chiesa e ai loro collaboratori furono vittime Sisto II e il diacono Lorenzo. In cosa possiamo vedere che lui aveva ben chiaro chi fosse?
In quel clima di angustia e paura per la persecuzione non si tirò indietro quando chiesero chi fosse il tesoriere dei beni della Chiesa e venne sbattuto in prigione e torturato.
Si dice che abbia avuto un colloquio con il Papa prima della morte di questo, prima della morte del suo punto di riferimento terreno, in cui Sisto gli disse « Io non ti lascio né ti abbandono, o figlio, ma a te spettano altri combattimenti… Dopo tre giorni mi seguirai… Prendi le ricchezze ed i tesori della Chiesa e distribuiscili a chi tu meglio credi ».
Egli si mise alla ricerca dei poveri della città e quando gli furono richiesti i beni della Chiesa per il mandato di confisca, ancora una volta affermò la propria identità di tesoriere e chiese tre giorni, dopo i quali, con tutta la creatività di chi ebbe cura dei poveri con tutto se stesso, condusse proprio quei poveri all’imperatore Valeriano dicendo: « Ecco qui i beni della Chiesa! ».
Morì tre giorni dopo il papa Sisto II, dopo aver convertito altri prigionieri e il centurione a cui era stato affidato con le sue predicazioni, con la sua pace e con il miracolo che vide protagonista un altro carcerato, Lucillo, a cui tornò la vista non appena fu battezzato da Lorenzo.
Allora, stretti tra questi due giganti, ci domandiamo:
“CHI SONO IO VERAMENTE?”
“Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua”. Il Signore gli disse: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora và! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire”. (Es 4, 10-12)