1 O voi tutti assetati venite all’acqua,
chi non ha denaro venga ugualmente;
comprate e mangiate senza denaro
e, senza spesa, vino e latte.
2 Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro patrimonio per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti.
6 Cercate il Signore, mentre si fa trovare,
invocatelo, mentre è vicino. (Is 55)
“Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.” Questa frase, a volte enigmatica, ci svela un segreto formidabile, risponde a una domanda che spesso ci poniamo: ma chi si muove prima, io o Dio? La risposta è: Dio. Perché s’è già mosso, da quando ha creato il mondo a quando ha mandato suo figlio. Ogni volta che c’è una relazione con Dio, scopriamo semplicemente che è Lui che si muove, ci chiama: noi, “semplicemente”, rispondiamo. Mentre noi lo cerchiamo già lui ci viene incontro, prende l’iniziativa e si mette a fianco.
Posso però reagire in vari modi, costruire vari tipi di rapporti con Lui. I racconti evangelici ci aiutano a comprendere che tipo di rapporto posso instaurare con Gesù (allora come oggi). Un rapporto che da “epidermico”, superficiale, che magari mi colpisce e mi emoziona come nel contatto con un “leader carismatico”, arriva ad un rapporto sempre più intimo, sempre più profondo che arriva fino alla totale immedesimazione in Lui, cioè a riconoscersi come un “altro Cristo”. Hanno dei nomi ben precisi: Folla Discepolo, Apostolo. Non sono gradi di “importanza” o di “carriera”, ma di profondità del mio rapporto con Lui.
- La folla: segue Gesù ma quello che dice non lo “digerisce”, non crede che parli per ciascuno. Sono discorsi – magari anche belli – di un leader carismatico, ma non penso mi sta chiedendo di “espormi” in prima persona. Io, nel mio rapporto con Dio sono in credito. È lui che – al massimo – mi deve qualcosa.
- Il discepolo: un discepolo è tale perché riconosce un maestro un maestro. Capisce che il messaggio del Maestro è prima di tutto PER LUI, riguarda la sua vita e la sua storia.
- L’apostolo: non solo comprende che il messaggio di Cristo è per sé, ma che il messaggio diventa il nuovo paradigma della propria vita e lui stesso diventa Cristo.
Nei Vangeli troviamo tanti esempi di queste relazioni, cominciate in un modo e finite in un altro. Prendiamo la Samaritana: prima va al pozzo da anonima, Gesù prende l’iniziativa, lei mano a mano accetta il dialogo, e arriva ad accettare quest’uomo che le mette davanti tutta la sua vita. Le mette davanti la Verità, cioè la aiuta a leggere con gli occhi di Dio la sua vita. E lei? Scappa come le altre volte? No, accetta il confronto perché la aiuta a capire chi è veramente e quale è il suo rapporto con Dio e con se stessa.
Si potrebbe obiettare: e noi? Lei aveva Gesù. Noi cosa abbiamo? Come possiamo capire se siamo tra la folla, siamo discepoli, apostoli, nulla? Come possiamo fare verità sulla nostra vita?
Tutti gli atteggiamenti citati hanno una cosa in comune: sono di persone che hanno sperimentato un “incontro” con Cristo. La differenza sta nel fatto che la folla crede che l’incontro possa avvenire a prescindere, ma non è così: è la nostra fede che cambia il rapporto con Dio.
Prendiamo l’emorroissa: la guarigione avviene perché lei ha una fede così profonda in quell’uomo di cui tutti le parlavano come un guaritore, un profeta, che lei si convince che anche solo toccandogli il mantello poteva essere guarita. Gesù non le dice “ti guarisco perché sono buono”, ma “la tua fede ti ha salvata”. Migliaia l’hanno toccato (la folla, appunto) ma Lui ha “sentito” solo lei. Non è aggrapparsi ad una consolazione psicologica o a una speranza anche illusoria. Non sono i precetti, la nostra educazione.
La fede è quando abbiamo il coraggio di dire che non siamo felici, che qualcosa ci manca, e ci chiediamo come raggiungerla. Qualcosa di meglio: la parte migliore. Quella che ci è stata promessa, come ad Ambramo.
Ad un certo punto nella vita, arriva il momento in cui tutta la nostra educazione cristiana non regge più, tutti i precetti a cui noi pensiamo di credere profondamente e di professare con tutti noi stessi, ad un certo punto vacillano, perché questa non è la vera fede, questa è la fede che qualcuno ci ha trasmesso: ma arriva il momento che una cosa trasmessa diventi nostra, altrimenti rimane vuota. E la fede è questo incontro che diventa tuo.
Come si fa a capire se abbiamo sperimentato questo incontro? Quando alla domanda “dove hai incontrato Gesù?” noi riusciamo a dare un nome e un cognome. Perchè Gesù è una persona, e nelle persone si rivela. Perché solo quando qualcosa nella tua vita ti tocca così tanto nel profondo, quando a questa cosa riesci a dare il nome di tuo padre, tua madre, di tuo figlio, di un dolore, di una malattia, di un amore, di un fallimento colossale, di una gioia immensa, allora puoi dire che quello è l’inizio vero della tua fede. Ma è solo l’inizio. E’ ancora “folla”.
Per muoverci, dovremmo avere il coraggio di guarda tutta la nostra storia con gli occhi di Dio, e capire che sta chiamando proprio me. Tutta la nostra storia, senza saltare un solo secondo. E come si fa? Non si può far da soli, non si è autodidatti, mai. Serve un confronto, una guida, quella che la Chiesa chiama “padre spirituale”. Non è un confessore, un amico o uno psicologo. Non puoi essere tu stesso. E’ uno con uno sguardo empatico. Serve confrontarsi con qualcuno che, presa la nostra vita, riesca a parlarci delle nostre cose più intime, personali e private in nome di Dio. Di quelle cose intoccabili, sule quali nessuno può e deve (secondo noi) dirci nulla.
Questo tipo di confronto è essenziale, è necessario per riuscire a leggere tutta la nostra vita con uno sguardo diverso, senza scuse e concretamente. Serve per capire quali sono le nostre menzogne, quali sono i nostri rapporti viziati. Per capire che non siamo gli sfigati di turno né il supereroe che basta a se stesso. Per non rischiare di farci un Dio “ad hoc”, per non essere un cristiano anonimo e mediocre. O diventare noi stessi Dio. Per rielaborare i fatti della nostra vita in funzione della Risurrezione di Cristo. Può avvenire solo se si ha il coraggio di farsi dire da qualcuno qual è la nostra (mia, tua) verità.
La guida spirituale non è uno che ha tutte le risposte alle domande che hai in testa. E’ qualcuno che le domande ti aiuta a formularle con le parole giuste, che è forse più importante che avere le risposte. Qualcuno che ti aiuta a “centrare il bersaglio”.
E’ una persona con la quale ti confronti, che ti fa da specchio, con la quale hai intimità ma tratti con riverenza. Devi accettare di dover reggere il confronto con qualcuno che non sta al tuo livello, che è in grado di parlarti di quelle cose intoccabili, che solo tu conosci e pensi nessuno conosca meglio di te. Una persona che ha uno sguardo più lungo del tuo, perché parla in nome di Dio.
La guida spirituale è come un padre. C’è una definizione di padre molto bella: “La figura paterna rappresenta simbolicamente la legge e l’autorità, parola latina “auctoritas” che deriva dalla radice del verbo augeo, che significa “far crescere”. Egli è la norma, la mano forte che protegge, la roccia che non crolla, il braccio forte che stringe e che ognuno di noi, sin dall’infanzia, ha portato dentro di sé e interiorizzandolo come modello. E’ una sorta di tavola delle leggi scolpita dentro di noi.”
Oggi la figura del padre è stata soppressa, ed è oggettivo che siamo in preda ad un infantilismo dilagante, che impedisce agli uomini e alle donne di abbracciare la propria vocazione al momento giusto, e con decisione. Siamo una generazione senza padri, perché è lui, il padre, che ci insegna a morire. Il padre, ancora, è il senso della realtà.
Dicono gli studiosi dell’età evolutiva che dopo i dodici anni un ragazzino dovrebbe smettere di dire “non è colpa mia”. Ma tu hai il coraggio di ammettere che la colpa è tua? Che forse quello che non va nella tua vita dipende solo da te e dalla tua chiusura mentale?
Puoi cogliere la bellezza che c’è in serbo per te solo se sei in grado di reggere dei confronti del genere, solo se capisci quanto sia importante liberarsi delle inutili sovrastrutture che ci siamo costruiti durante tutta la vita per renderci più belli, più bravi, per vivere dentro la nostra bolla, e ammettere che l’aiuto che tanto disprezziamo in realtà ci serve. Se, appunto, ti fidi.
La mentalità da zitella/zitello è senza confronti; non li regge, non ce la fa. Ma l’amore lo esige, e la crescita personale anche.
Il confronto personale è indispensabile. E non è il confronto nel gruppo, tra noi e gli altri in una comunità. Quello è di altra natura, ha altri obiettivi. Non ti fa uscire fuori da te, quello ti aiuta a capire che molte necessità non sono solo tue, che c’è chi di un momento di difficoltà o smarrimento ha fatto tesoro, e l’ha usato come trampolino di lancio per l’inizio di qualcosa di autentico, di bello. E’ un confronto produttivo, ma non basta, non è la base da cui partire. Per avere una visione pulita della tua vita, dell’esperienza che hai vissuto e poterla portare a confrontare in un contesto come quello del coro, o del gruppo, non ti basta meditarci su. Devi avere qualcuno con cui scontrarti, ma cui dare ascolto. Qualcuno che ti possa dire “stai sbagliando tutto” senza che tu dia di matto.
Non è un obbligo andarsi a cercare un padre spirituale: è un’opportunità privilegiata. Sta a noi scegliere che tipo di cristiani vogliamo essere, se ci basta la mediocrità o vogliamo scoprire cosa c’è in fondo alla nostra strada. O per lo meno, iniziare veramente a credere che per noi c’è qualcosa di meglio in serbo. Cristo non ha obbligato Pietro a seguirlo: gli ha fatto vedere la pienezza nelle sue reti e gli ha promesso di farlo “pescatore di uomini” se si fosse fidato. Noi siamo liberi, anche di scegliere di sbagliare. Ma la domanda è: quanto tempo ancora vuoi perdere prima di iniziare a capire cosa vuol dire vivere la pienezza di Cristo? Quando vuoi cominciare a “fidarti”?