E’ facile riconoscere Dio come Padre? E’ necessario che accada qualcosa perché riusciamo a riconoscerlo? Ci sentiamo figli di Dio veramente? E cosa vuol dire essere figli di Dio?
Essere figlio di Dio vuol dire vivere nella carne, ma con una fame concreta che sta nella dimensione di figlio di Dio. E cosa vuol dire quindi essere uomini e figli di Dio?
Di per sé “essere uomini” vuol dire dover dipendere da una serie di cose che si presentano sotto forma di bisogni, ma in particolare significa vivere sull’orlo del nulla: l’uomo, infatti, deve accettare la sua inconsistenza, per “sopravvivere” deve darsi una sostanza a fronte della sua fragilità. E allora ci si attacca alle soddisfazioni fisiologiche, al possesso delle cose, alle idee, ai progetti, che talvolta sono assolutizzazioni del nostro cervello, che quasi ci sconnettono dalla realtà.
Cristo introduce un concetto di vita diverso: in questa vita i bisogni sono lo spazio della provvidenza della paternità di Dio, sono la dimensione in cui io lo ascolto e dialogo con lui. Come figlio di Dio io sono libero da tutti i bisogni umani, dalla fame, dal potere e dal possesso, non sono schiavo dei miei progetti, perché in fin dei conti non devo scappare dalla realtà, ma posso aspettare i suoi tempi, mi posso fidare di Lui. La Quaresima è un percorso di liberazione dalle dipendenze per iniziare a vivere nella fiducia, nell’abbandono e nell’attesa dell’opera di Dio verso di noi, che è molto più sapiente dei nostri progetti. E’ riscoprirsi figli in senso cristiano. Ma cos’è la “figliolanza cristiana”?
Se un padre e una madre vivono la figliolanza cristiana, i loro generati scopriranno che sono dei “figli”. Siamo educatori se ci lasciamo educare. Benedetto XVI ha affermato che essere testimoni di Cristo Risorto significa innanzi tutto appartenere a Cristo Risorto. Se fossimo soli, saremmo disperati, perché la libertà, intesa come autonomia, viene contraddetta e smentita, specie dalla morte.
Tutti noi siamo molto più spesso concentrati sul “fare” e ci dimentichiamo di soffermarci su “chi siamo veramente”. Il giovane ricco chiede a Gesù cosa avrebbe dovuto fare per meritarsi il regno dei cieli. La buona novella che Gesù ci ha portato è che noi siamo Figli, e perciò eredi, e questo status non ci viene tolto mai.
Rimaniamo figli a prescindere dal fatto se non ci comportiamo come tali o decidiamo di non esserlo più, anche se facciamo di tutto per non essere figli o essere dissociati dai nostri genitori. Dice san Paolo nella lettera ai Romani: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo.”
Che cos’è questa eredità di cui parla Paolo? Cosa vuol dire che lo Spirito attesta che noi siamo Figli? Come si cala l’identità di Dio nella nostra storia e di come ci si accorge di essere Figli?
La parabola del figliol prodigo insegna che all’uomo è consentito di riappropriarsi della propria identità e del proprio valore, ma perché questo avvenga dipende esclusivamente da lui, che maturi in lui “la coscienza della figliolanza sciupata”. Era necessario cioè che riscoprisse il senso profondo della sua identità di uomo, della sua realtà di figlio e quindi del rapporto che lo univa al padre. Il figliol prodigo capisce che, avendo voluto rivendicare la propria autonomia rispetto al padre, ha messo in discussione la sua identità di figlio e perciò confessa a se stesso di non meritare più di essere considerato figlio.
Perché il padre lo perdona, perché è misericordioso? Forse perché è infinitamente buono? No: il figliol prodigo è perdonato e riaccolto perché il padre non può farne a meno. E’ nella sua natura, non può lasciare il figlio fuori, è stato toccato dall’ingratitudine del figlio e ne ha sofferto intensamente, ma non si è dimenticato di lui. Per questo agisce nei suoi confronti non secondo giustizia soltanto, ma piuttosto secondo l’amore, l’unica logica che lui comprende.
Come un papà e una mamma sanno che la maturazione del proprio figlio richiede una forma di presenza che allo stesso tempo lo accompagni e non si sostituisca a lui, sottraendogli tutte le difficoltà, così è Dio con noi. Proviamo a guardare la nostra storia con questi occhi. Vediamo se troviamo Dio anche dove sembra a prima vista non ci sia, e a chiederci in cosa questa “scoperta” ci cambia nel guardare la nostra vita da qui in avanti. Si dovrebbe sempre cercare di dare un valore a ciò che ci accade, non sprecare il dolore che viviamo, perché solo nelle difficoltà riusciamo a sentirci veramente grati e amati. Solo con la croce ci salviamo.
Tornando a casa, il figliol prodigo non si aspettava affatto un’accoglienza del genere. Ma poi ha scoperto quanto il Padre l’amasse. Non pensava fosse così.
Non solo non l’ha punito ma l’ha rimesso al posto di prima. Al posto di prima, ma non con i sentimenti di prima. Perché prima il figliol prodigo stava in casa con i sentimenti di chi pensa che tutto gli è dovuto, tanto che ad un certo momento chiede al padre la parte che gli spettava secondo giustizia. Adesso invece sta in casa con il perfetto convincimento che tutto è grazia, che tutto è dono, che tutto è amore: anche lui, d’ora in poi, vivrà da “figlio generato”.
Dovremmo chiederci in questo tempo di Quaresima se abbiamo imparato a riconoscere Dio nella nostra storia oppure lo riconosciamo solo quando le cose vanno come diciamo noi o quando ci sentiamo guardati. Dovremmo chiederci quante volte, durante la nostra giornata e nel nostro rapporto con gli altri, le nostre decisioni siano state guidate dal sentimento di appartenenza a Dio, di figliolanza a Lui e se nella nostra quotidianità ci sentiamo dei figli rigenerati o ancora alla ricerca di quell’amore di cui abbiamo sentito parlare ma che non pensiamo di aver mai sperimentato.