“Dove sei?” Questa la domanda che ci siamo posti all’inizio dell’anno, e partendo dalla quale abbiamo voluto confrontarci con noi stessi alla luce di Cristo; perché l’obiettivo del cristiano è sempre lo stesso: fare verità su noi stessi, e la verità è Cristo. Non possiamo rispondere a nessuna domanda, non possiamo affrontare nessuna fase della vita in modo vero senza riferisci a Lui. E Lui ci risponde: “siete a Gerusalemme, la città santa; siete insieme, e insieme dovete rimanere, così da poter ricevere lo Spirito Santo.” Questa è la risposta dopo tutto il percorso fatto nell’anno: dobbiamo stare insieme! Così Lui ci ha voluti, perché solo insieme diamo il meglio di noi stessi.
Nel martedì dopo Pasqua, Cristo subito “rimprovera i suoi della loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto agli altri”. Perché “da questo vi riconosceranno: da come vi amerete gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Ma come ci ha amati Lui? Fino alla fine, fino a dare la vita per tutti quelli che Lui aveva intorno, per noi, per ognuno di noi. E questo è il punto fondamentale: chi abbiamo noi intorno? Chi sono questi altri che Lui dice “amateli come io ho amato voi”? Ci risponde in un altro passo: “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. “
Quindi questi altri, di fatto sono tutti. Perché noi non siamo chiamati ad amare come coloro che in Cristo non credono e non l’hanno mai incontrato: siamo chiamati ad amare con una marcia in più, a essere “sale della terra e luce del mondo”. Siamo chiamati ad amare gratuitamente: la parola “merito” in realtà nella lingua originale significa “gratitudine”, quindi amare non perché qualcuno ci dica “bravo!”, ma perché Qualcuno ci dica “grazie!”; e ad amare per primi, senza aspettare la conferma dell’amore degli altri, perché già ci ha amati Lui per primi. Ma come si fa una cosa del genere? Come posso io amare così? Perché sinceramente tutti noi di fatto tendiamo ad amare come fossimo soli: al massimo amiamo chi ci vuol bene e la nostra famiglia, ma istintivamente non usciamo da questo perimetro; abbiamo troppa paura di farci male, che il nostro amore sia sprecato o non capito. Ma cos’è un amore gratuito, se non un amore che non si cura affatto di sprecarlo?
Abbiamo iniziato l’anno con la domanda: “dove sei?”; ci siamo interrogati su cosa voglia dire, partendo dalla riflessione prima di tutto di chi siamo noi, e se siamo per noi stessi o per qualcun altro. Ora tutto aquista un senso: siamo in mezzo agli altri, ad altri che sono figli di Dio esattamente come noi. Hanno lo stesso Padre che li ama come ama noi.
Forse questo è il punto più difficile: riconoscersi contemporaneamente amati in modo esclusivo da un Padre che ama anche tutti gli altri, perché tutti siamo figli suoi. Ci sentiamo veramente figli di Dio? Perché se non riusciamo a vedere gli altri come i nostri fratelli, che corrispondano o no alle nostra aspettative, forse dovremmo interrogarci su questa domanda: perché i cristiani si riconoscono da come vivono in comunità. Non siamo isole, non è un rapporto io-Dio e Dio-me, ma come ci insegna il dogma della Trinità, è un rapporto aperto, che include gli altri e che attraverso gli altri si impara a vivere con lo Spirito Santo.
La nostra fede è tutta comunitaria: tutti i sette sacramenti lo sono, nessuno di loro è individuale, anche se spesso tendiamo a viverli in questo modo e così li vanifichiamo. La comunità che prega insieme è il veicolo delle Spirito Santo. Non si può amare qualcun altro prima e oltre sé stessi senza essere bene radicati in Cristo: non ce la facciamo, abbiamo troppa paura di morire. Ma con Lui possiamo.
“Dove siamo” non è un ambiente, non è un momento storico: “dove siamo” ci porta a contemplare le persone che abbiamo intorno, quelle che Dio ci ha messo intorno e con le quali siamo chiamati a camminare. “Tante cose ho ancora da dirvi, ma non siete capaci di portarne il peso”: insieme possiamo. Siamo pellegrini, non vagabondi. La parrocchia è la nostra casa, quella che noi costruiamo, non solo quella che noi subiamo come fossimo clienti in un bar.
Dal Concilio Vaticano II in poi il senso di essere chiamati a vivere in una comunità di fratelli è sempre di più sottolineato come veicolo dello Spirito Santo. La comunità arricchisce, forma, ferisce, eleva, santifica: è una scuola di fiducia. Data e ricevuta, tradita o affermata, non importa. Questo fa di noi degli “abeli” invece che dei “caini”. Siamo chiamati ad essere “presenti”, oltre che “partecipi”. Non abbiamo bisogno di regole, ma di un cuore che ascolta (Salomone). Ma per far questo dobbiamo fidarci di Dio.
Il cristiano serio, che per la prima volta si vede posto a vivere in una comunità cristiana, porta con sé un’immagine ben precisa della vita in comune di cristiani e cercherà di attuarla. Ma la forza del Signore ben presto farà crollare tutti questi ideali. Dobbiamo essere profondamente delusi degli altri, dei cristiani in generale e, se va bene, anche di noi stessi, quant’è vero che Dio vuole condurci a riconoscere la realtà di una vera comunione cristiana. E’ la bontà di Dio che non ci permette di vivere, anche solo per brevi settimane, secondo un ideale, di credere a quelle beate esperienze, a quello stato di entusiasmante estasi, che ci mette come in uno stato d’ebbrezza. Il Signore non è Signore di emozioni, ma della verità.
Dove sei, quindi? Sei a Gerusalemme insieme agli altri a vivere e pregare insieme? “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua Risurrezione nell’attesa della Tua venuta”. Qui siamo. E qui vogliamo stare, come Lui ci ha detto.