Poniamoci subito una domanda: si deve parlare di Dio a partire da Lui o se ne deve partendo dall’uomo? L’alternativa è solo apparente: in realtà, non si parla di Dio che partendo da ciò che egli ha fatto per noi, nella creazione e nella redenzione ed insieme l’iniziativa libera e gratuita del suo amore e la nostalgia e la ricerca del suo volto presenti nell’inquieto cuore degli uomini. Il Dio biblico è un Dio “narrato”: l’insieme dei racconti delle sue gesta d’amore per il popolo è il libro della “fede d’Israele”, il nutrimento della sua speranza. La Chiesa non si è distaccata da questa tradizione di racconti: l’ha solo arricchita delle sue meraviglie operate in Gesù di Nazaret. La più antica confessione di fede cristiana, la proclamazione pasquale “Gesù è il Cristo, Gesù è il Signore”, non altro che un racconto: quel Gesù crocifisso è colui che il Padre ha esaltato nella gloria; l’Umiliato della Croce è stato resuscitato da Dio e da Lui costituito Signore e Cristo. Se si ci chiede allora la ragione più profonda per la quale l’uomo del Vecchio Testamento e del Nuovo Testamento ha confessato la sua fede “narrando” il suo Dio, non può esserci altra risposta che quella di un’esigenza di obbedienza alla rivelazione divina: è Dio stesso a parlare all’uomo di sé comunicandogli il suo amore raccontando loro con eventi e parole.
GESU’ E’ IL CRISTO E’ IL SIGNORE
Dio si è “raccontato” e questo santo racconto è la storia della salvezza. Perciò chi vuole inadeguatamente parlare di Lui, deve nar- rarlo: deve cioè far memoria delle sue meraviglie, perché la narrazione susciti storie sempre nuove di fede e d’amore; perché il racconto contagia ciò che si narra, è storia che suscita storia. I racconti della nostra fede hanno sempre suscitato commenti, commentatori ed interpreti che ne cercassero l’unità profonda, affinché partendo da essi si potesse trovare un sentiero unitario di risposta alle domande su Dio, sull’uomo, sulla storia: la teologia sta a dimostrare la verità di queste esigenze. Le domande quindi sono sempre le stesse: 1) ci sono nell’universo e nella storia segnali e cifre che indicano la sua presenza? 2) ci sono vie di accesso alla profondità del suo mistero?
RACCONTARE L’AMORE DI DIO
Fra questi due approcci al Mistero che conducono l’uno all’Oggettività suprema, l’altro alla Soggettività infinita e trascendente, l’intelligenza credente ha spesso cercato una conciliazione, cogliendo in Dio la risposta assoluta alla nostalgia di infinito presente nell’uomo o riconoscendo in Lui l’Altro che viene a visitare il cuore umano e lo libera dalla prigionia della sua solitudine e dalla violenza di una ragione presuntuosa, mossa dalla sola “volontà di potenza”. (S. Tommaso D’Aquino – Summa Theologiae) Parlare di Dio, raccontando il suo amore, è esattamente quello che fa il Simbolo della Fede: IL CREDO. Esso confessa il Dio vivente narrando la storia del Padre, creatore e signore del cielo e della terra, quello del Figlio, che si è incarnato ed è morto e risorto per noi, e quello dello Spirito Santo che anima la Chiesa ed Credere vuol dire “dare il cuore” è il vincolo della comunione nel tempo e per l’eternità. Il Simbolo ci offre una traccia breve e densa che evoca la storia trinitaria dell’uomo Dio nel quale crediamo e ci apre a farne esperienza nell’umiltà quotidiana nella storia del nostro cammino. Secondo una suggestiva etimologia medioevale “credere” significherebbe “cor dare”, dare il cuore, rimetterlo incondizionatamente nelle mani di un altro: crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto la Lui nell’ascolto obbediente e nella docilità dal più profondo del cuore. Fede è resa, consegna, abbandono, non possesso, garanzia, sicurezza. CREDERE è accettare di crocifiggere le proprie miserie sulla Croce di Cristo. Alla fede ci si avvicina con timore e tremore, togliendosi i calzari, disposti a riconoscere un Dio che parla nel vento, nel fuoco o nel terremoto, ma nell’amore e nella misericordia come fu per Elia sulla santa montagna (cfr 1Re 19,11-13). Testimoniare la fede quindi non è dare risposte già pronte, ma è contagiare la pace, la fratellanza, l’amore fraterno, il perdono, l’uguaglianza … è accettare l’invito che questa ci propone e questo comunque non è risolvere tutte le oscure domande che possono derivare da tali atteggiamenti, ma parlare ad un Altro (Dio) e insieme con Lui (Cristo) camminare nel suo insegnamento … amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto dio
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,7-8). Queste parole della fede ci mostrano come per il cristiano credente in Dio non significhi semplicemente pensare che Dio esista ma che Dio è amore. E questo vuol dire riconoscere che Dio non è solitudine: per amare bisogna essere almeno in due. Dio Amore è comunione dei tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore ricevuto e donato, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. CREDERE quindi in Dio Amore, significa allora credere che Dio è Uno in tre Persone, in una comunione così perfetta che i Tre sono veramente Uno nell’Amore, ed insieme intessuta di relazioni così reali, che Essi sono veramente Tre nel dare e ricevere amore, nell’incontrarsi e nell’aprirsi all’amore. CREDERE in ciò significa che davanti all’Eterno non siamo un numero ma tutti conosciuti ed amati di amore infinito da Dio sorgente di ogni amore.
Giorgio Manzone