Dal Concilio Vaticano II in poi, è diventata di uso comune l’espressione “partecipazione attiva” dei fedeli alla celebrazione liturgica. Questa frase, di fatto usata nella stragrande maggioranza dei casi con il significato di “l’assemblea deve cantare” e quindi per giustificare una scelta dei canti spesso discutibile, in realtà esprime un concetto estremamente più denso e soprattutto meno banale, senso che i liturgisti, a cinquant’anni dal concilio, hanno ormai ben compreso e soprattutto chiarito.
Per inquadrare il problema, ricordiamo che la liturgia è “culmine e fonte” di ogni azione di grazia (lo ricordava sempre Don Bosco ai suoi ragazzi: senza Cristo “non possiamo fare nulla”); ma poiché il nostro Dio è un Dio incarnato in Cristo, e che fa della comunione tra i fedeli la sua caratteristica principale, ecco che la frattura che di fatto si era creata tra sacerdoti e laici già nel 1700 durante lo svolgersi del rito, aveva creato non pochi malumori all’interno della Chiesa, chiedendo con forza che venisse affrontato il problema. Fu Pio XII prima del Concilio che scrisse una prima volta sulla “partecipazione dei fedeli”, ma la sua è una partecipazione diversa da quella poi sviluppatasi dalla Sacrosanctum Concilium.
Nei suoi scritti, si evince una partecipazione più intimistica, più di “contatto dell’anima con il senso della celebrazione”. Di fatto, si esclude ogni eventuale equiparazione tra chierici e laici: «il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali». Il concetto di partecipazione dei fedeli è legato non al rito, ma allo stato d’animo; tutti devono poter «riprodurre in sé, per quanto è in potere dell’uomo, lo stesso stato d’animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il Sacrificio di sé: l’umile sottomissione dello spirito, cioè, l’adorazione, l’onore, la lode e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio; […] l’abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo, il volontario e spontaneo esercizio della penitenza, il dolore e l’espiazione dei propri peccati»
Coloro che non riuscivano a entrare pienamente nel rito o per ignoranza o per incomprensione della profondità dei riti, potevano partecipare in altra maniera, per esempio meditando i misteri del Rosario o tramite altre preghiere, da cui sono nate tante forme rituali che ancora oggi faticano a essere messe da parte quando si celebra l’Eucarestia.
I Padri conciliari, qualche decennio dopo, invece coniarono l’espressione “actuosa participatio” per esprimere ciò che ciascun battezzato, in forza del sacerdozio comune, deve poter vivere nella celebrazione. E scrissero così:
«È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato” (1Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo» (SC 14). I Padri, inoltre, raccomandarono di preferire «una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli […] alla celebrazione individuale e quasi privata» (SC 27) e, nelle istruzioni offerte per la riforma dei libri e dei riti, al fine di promuovere tale partecipazione attiva esortano a curare «le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. […] anche, a tempo debito, un sacro silenzio» (SC 30).
Di fatto, si sana quella spaccatura che portava i fedeli ad assistere passivamente alla liturgia, e si arriva a far si che tutti i fedeli, «comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (SC 48).
La celebrazione ridiventa un corpo unico, diversificato solo dalla ministerialità. La liturgia riformata pone al centro del suo celebrare l’assemblea: un’assemblea tutta ministeriale, presieduta da un ministro ordinato, e servita da diaconi, accoliti, lettori, cantori. Un’assemblea che veda fiorire al suo interno vocazioni e ministeri e che, nell’azione liturgica, lasci trasparire la ritrovata immagine di Chiesa-Corpo di Cristo dove, secondo l’Apostolo, tutte le membra, ben compaginate, ciascuna secondo le proprie peculiarità, partecipano al buon funzionamento dell’intero corpo. Non limitata quindi al solo canto, bensì a ogni momento della celebrazione. Ogni attore, parte attiva, ha un suo ruolo, anche solo fosse quello delle risposte assembleari: ma tale ruolo è consapevole e soprattutto in comunione con gli altri.
Viene da sé un’annotazione: è stato “abbassato” il livello sacerdotale o è stato “innalzato” il livello dell’assemblea? La risposta, negli scritti, è semplice: la seconda opzione. E qui le nostre assemblee, purtroppo, cadono miseramente, spesso non per colpa loro. Al contrario di quello che si evidenziava all’inizio, non è più un “tutti fanno tutto”, in nome di una certa buona volontà e un certo livellamento. Non è un gioco al ribasso, ma anzi è un’esplosione di servizio.
Un lettore non è più una persona casuale, ma una persona formata, capace di proclamare la Parola alla comunità allo stesso modo in cui il sacerdote proclama il Vangelo; un cantore o un coro non sono più persone di buona volontà che cantavano sotto la doccia o in qualche teatro lirico, ma formate alla conoscenza di ciò che stanno vivendo e come tali “lodano Dio e santificano i fedeli”; un ministrante non è più un bambino da far star buono, ma un gruppo stabile che serve attivamente; l’assemblea non è più una massa di persone sconosciute, ma cristiani che si ritrovano in comunità, e quindi pregano insieme, arrivano insieme, vanno via insieme, si alzano insieme, cantano insieme le parti a loro assegnate e sono in comunione nelle altre; e così via.
La “partecipazione attiva” è frutto di una formazione costante di tutta l’assemblea celebrante, e richiede una responsabilità molto più grande che in passato; non ci si può più nascondere nell’anonimato. In questo senso, si nota subito una divisione tra chi partecipa attivamente alla vita parrocchiale, e chi viene solo a messa, magari distratto, in ritardo e senza coinvolgimenti. Quanta bellezza si perde!
La Liturgia Eucaristica è per tutti, e tutti sono chiamati, ognuno nel suo ruolo, a entrarne e a partecipare nel suo senso profondo e nei miracoli che essa produce. E’ il culmine e la fonte della vita di ogni cristiano. Riscopriamo il nostro ruolo. La strada, quella di chiedere e dare a ogni fedele maggior consapevolezza del suo ruolo in funzione del battesimo ricevuto, è tracciata, ormai: indietro non si tornerà.