Parlare di misericordia è parlare di uno stile di vita che può rimodellare tutto, anche l’educazione. Basta, ad esempio, scavare in una delle parabole più ricche di Gesù, quella del Padre misericordioso (Lc 15,11-32), che noi erroneamente chiamiamo del “Figliol prodigo”, per esserne convinti. In essa troviamo infatti sei mosse (sei verbi) che possono benissimo costituire l’ossatura di un trattato pedagogico targato misericordia.
1. “Lo vide”
Il figlio è ancora lontano e il padre già lo vede. Ecco la prima mossa che i genitori patentati conoscono bene: i figli vanno visti, vanno guardati! Non c’è figlio che non ami essere oggetto di attenzione da parte di qualcuno. “Guarda, mamma, che bel disegno ho fatto!”. “Guarda, papà, come vado bene in bicicletta!”. “Guarda, nonna, la maglietta nuova!”.
Persino gli adolescenti, che appaiono così sicuri e indipendenti, amano essere guardati. Che cosa sono i tatuaggi, il piercing e le tante cure del look se non un’invocazione: “Guardateci!”. Insomma, non c’è dubbio alcuno: i figli reclamano il nostro contatto visivo, i nostri occhi. Il contatto visivo soddisfa i loro bisogni emotivi più di quanto non li soddisfino (si noti) tutti i contatti digitali del mondo messi insieme. Guardare il figlio è come dirgli: “Tu esisti per me. Tu sei entrato nei miei pensieri, nel mio mondo affettivo”.
Non per nulla nei campi di concentramento tedeschi era severamente proibito ai prigionieri fissare negli occhi i loro carcerieri per timore che potessero essere inteneriti. Potenza dello sguardo visivo che, oltre a soddisfare i bisogni emotivi del figlio, come abbiamo appena detto, gli dà anche valore. Essere guardato, infatti, significa essere considerato. Non essere guardato significa non essere considerato, non essere nessuno. In una parola sola: lo sguardo è un potente fattore di autostima. Dunque, una cosa è certa: se guardassimo i figli almeno quanto guardiamo il bagno e l’automobile, avremmo meno ragazzi tristi, meno ragazzi infelici, meno ragazzi ammalati di scontentezza.
A questo punto è chiaro che imparare a guardare i figli non è un optional, ma un preciso impegno. Imparare a guardare perché non tutti gli sguardi sono pedagogicamente accettabili. Vi sono sguardi sbagliati e sguardi buoni.
Sguardi sbagliati
Un tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo poliziesco che controlla in continuazione il figlio, non lo lascia libero un momento, lo tampina tutto il giorno. Lo sguardo poliziesco potrà fare un figlio disciplinato, ma non un educato; come lo sguardo dei carabinieri che controlla l’ordine, ma non forma uomini. Ai genitori che tendono ad avere lo sguardo poliziesco è bene ricordare due proverbi. Il primo: “Mai catena ha fatto buon cane!”. Il secondo: “Briglia sciolta un po’ alla volta”.
Un secondo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo minaccioso. Vi sono genitori che sfruttano lo sguardo per dare ordini, rimproverare, criticare: “Guardami negli occhi!”, urlano, fissando il figlio con lo sguardo fulminante. È vero che i figli vanno rimproverati, ma lo sguardo truce non ci pare la via migliore per la sgridata. Papà e mamma dovrebbero essere ricordati dai figli con altri occhi, non con quelli severi e fulminanti.
Una confidenza: chi scrive ricorda con gioia gli occhi profondi e dolci della mamma che gli intercettavano il cuore e lo addolcivano.
Terzo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo indifferente. Tra tutti questo è, di certo, il peggiore. L’indifferenza è la bestia nera di ogni ragazzo (e non solo): gli gela l’anima, gli fa perdere la voglia d’essere al mondo. Non è forse vero che è piacevole vivere solo se si è accolti nel mondo affettivo di qualcuno?
Per favore, dunque, liberiamoci dagli sguardi sbagliati e passiamo a quelli buoni, tipici della misericordia, i soli pedagogicamente accettabili.
Sguardi buoni
Il primo tipo di sguardo buono è lo sguardo generoso che vede nel figlio ciò che nessuno vede. Lo scrittore francese François Mauriac (1885-1970) ha avuto una felicissima intuizione quando ha detto che: “Amare qualcuno significa essere l’unico a vedere un miracolo che per tutti gli altri è invisibile”. Ebbene, in ogni bambino vi è un miracolo nascosto. Di una cosa siamo convinti al 100%: se incominciassimo a vedere ciò che nostro figlio ha, non avremmo più tempo di pensare a quello che non ha. Esempio tipico di sguardo generoso è quello dei bambini che trasformano in sole il punto giallo del loro disegno.
Un secondo tipo di sguardo buono è quello che non si limita a vedere, ma arriva a guardare. Vi sono persone che vedono, ma non guardano. Gli animali vedono, ma non guardano. Vedere è spontaneo. Guardare è una conquista. Vedere una persona è prendere semplicemente atto della sua presenza, guardarla è trasferirsi in essa, è cogliere il suo stato d’animo, le sue vibrazioni interiori. Il figlio sente se è solamente visto o se è guardato; sente se si è lì per lui o se si è lì per l’amica con la quale parliamo; sente se si è lì per lui o per il bucato che stiamo stirando. È vero che il figlio non deve monopolizzare tutta la nostra attenzione durante la giornata (sarebbe fortemente diseducativo: porlo sempre al centro dell’attenzione è preparare un piccolo despota), però riservargli, di tanto in tanto, un congruo spazio di considerazione totale è dargli l’indispensabile perché possa ringraziare d’esser nato!
Un terzo tipo di sguardo buono è quello sempre nuovo. Il figlio cresce e cambia: dobbiamo rinnovare anche il nostro modo di guardarlo. Perché ostinarci a vedere sempre e solo la piccola pianta e non il meraviglioso albero che sale? Perché non adattarci alla sua crescita? Ad un certo punto dobbiamo cambiare gli occhiali ed accorgerci che il figlio non è più un bambino, ma un fanciullo, un adolescente e trarne le conseguenze nel nostro modo di parlargli e di trattarlo.
(Tratto da IL BOLLETTINO SALESIANO – Autore PINO PELLEGRINO)