All’alba tornò nel tempio, e tutto il popolo andò da lui; ed egli, sedutosi, li istruiva. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna còlta in adulterio; e, fattala stare in mezzo, gli dissero: «Maestro, questa donna è stata còlta in flagrante adulterio. Or Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare tali donne; tu che ne dici?»
Dicevano questo per metterlo alla prova, per poterlo accusare. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito in terra. E, siccome continuavano a interrogarlo, egli, alzato il capo, disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva in terra.
Essi, udito ciò, e accusati dalla loro coscienza, uscirono a uno a uno, cominciando dai più vecchi fino agli ultimi; e Gesù fu lasciato solo con la donna che stava là in mezzo.
Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: «Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?» Ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più». (Gv 8, 1-11)
Con questo brano, al termine della Quaresima, la Chiesa ci svela la logica di Dio.
Partiamo dalla donna”. È stranamente sola. È stata sorpresa “in flagrante adulterio”, a fare cioè qualcosa per cui bisogna essere almeno in due. Ma qui non c’è l’amante a condividere la medesima accusa, e manca anche il marito… manca la parte lesa.
Forse cioè l’“adultera”, in sé certo reale col suo dramma e il suo peccato, è figura di qualcun altro… ma di chi? Ce lo dice il profeta Osea: “Le strapperò via la mia lana e il mio lino, che servivano a coprire la sua nudità. Sì, ora scoprirà la sua vergogna agli occhi dei suoi amanti, e nessuno la salverà dalla mia mano” (Osea 2, 11-12). La donna che “gli scribi e i farisei” hanno trascinato da Gesù è forse allora proprio il simbolo del popolo infedele sorpreso e “svergognato” in pieno tradimento.
Questo spiegherebbe perché qui apparentemente non compare l’amante: per Osea gli amanti di Israele erano “gli idoli” dietro ai quali esso andava. Ma successivamente, dal tempo dell’esilio, Israele ha abbandonato ogni culto idolatrico… però un “amante” lo ha ancora, va ancora “dietro” a un idolo: la “legge di Mosè” elevata a assoluto, a un insieme di norme da rispettare ad ogni costo, fino a dimenticare Dio, che resta indietro, oscurato dall’ossessione per le minime regole della legge. A questo punto è chiaro anche chi sia il “marito” e perché (anche lui apparentemente) non compaia: il marito tradito è proprio lui, il Dio dimenticato in favore della legge. C’è allora in questa pagina una sottile, terribile ironia: gli accusatori, accusando la donna, accusano se stessi. E la legge che invocano contro di lei è in realtà proprio l’idolo che li inchioda alla loro infedeltà! E ne sono consapevoli. Al punto che, quando Gesù lancia loro la sfida che è al tempo stesso un appello alla coscienza: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”, proprio accusati dalla loro coscienza, quegli scribi e quei farisei “uscirono a uno a uno, cominciando dai più vecchi fino agli ultimi”.
“Fu lasciato solo”, dice a questo punto il nostro testo, parlando di Gesù. E la donna, “là in mezzo”, sino a questo momento figura dolorosa di Israele infedele e esposto all’ignominia, viene trasfigurata come per un incanto ad immagine del popolo graziato. È scritto ancora in Osea: “Quel giorno avverrà, dice il Signore, che tu mi chiamerai: «Marito mio» … e io ti dirò «Tu sei il mio popolo», e mi risponderai: «Mio Dio!»” (cfr Osea 2, 18 ss.). È molto significativa la frase di Sant’agostino che a proposito dice : “relicti sunt duo, misera et misericordia.” Restarono in due, colei che è sofferente e colui che ha compassione. È una frase che in due parole racchiude tutto il senso di questo passo. La compassione accoglie e solleva dalle sofferenze.
Ma perché Gesù domanda: “nessuno ti ha condannata”? Una domanda quasi retorica, semplice. Ma è alle domande semplici che dobbiamo rispondere, quelle che diamo per scontate. “Ripartite dall’ovvio”, ci dice Papa Fransceco. Questa domanda è un ponte che è gettato tra Gesù e l’adultera, affinche risponda e reagisca, perche si renda conto della sua dignità, della sua persona.
È Dio che per primo lancia un ponte verso di noi: Egli non sta ad aspettare, la prima mossa assolutamente fondamentale la fa lui. Ci dona Gesù, il pontefice massimo, e ci invita a passare attraverso questo ponte sicuro. Attraverso il perdono riapre ponti che sembravano chiusi definitivamente e irrimediabilmente. E la donna è diventata una nuova creatura in Cristo proprio per questo suo nuovo stato di riacquistata dignità. Gesù non la condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia offre alla donna la possibilità di cambiare. E dopo averle fatto dono del perdono, le fa dono di un progetto di vita: “Va’”, dice a quella donna, “e non peccare più”.
Si può dunque contare sul perdono divino, ma esso non cancella il fatto, non lo derubrica da colpevole in lecito. Presa coscienza del male commesso qualunque esso sia, il perdono accordato da Dio va inteso come un invito a non ripeterlo. Si può infatti pensare infatti (e spesso lo facciamo) che se il Signore ci perdona, il suo perdono non è alla fine così fondamentale; e allora fatalmente se il perdono è sbiadito, si sbiadisce anche l’esigenza di perdonarci fra noi.
Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l’incontro con Gesù abbia cambiato vita, nel testo non ci sono riferimenti in merito. Può darsi che tornerà a casa e continuerà la sua vita senza ricordare l’evento o essendone indifferente, anche se sarebbe strano perché chiunque di noi si ricorderebbe di chi ti ha salvato la vita. Non possiamo quindi pensare che la donna sia tornata a casa dimenticando quell’incontro, quegli occhi che non solo le hanno salvato la vita fisicamente, ma le hanno anche cambiato la vita. Le hanno dato la possibilità di ricominciare. Ma è giusto dire ricominciare, e come si fa a ricominciare?
Ricominciare significa che io cancello quello che ho vissuto prima: se devo ricominciare un lavoro dall’inizio, un progetto, un articolo, la tesi, significa che devo cancellare tutto e scrivere da capo. Ma questo non può accadere perché sa un pò di forzatura. Pensiamo a quelli che dicono: voglio ricominciare una nuova vita, in realtà i problemi della vecchia vita se li portano anche nella nuova; se scappi, se ti allontani da ciò che credi essere la causa del problema, ti porti dietro tutto.
E poi: come si fa a ricominciare dopo una litigata feroce col proprio fidanzato/a, si pensa subito ai progetti che vanno in fumo. Pensiamo a ricominciare dopo l’ennesima volta che non supero un esame, che non supero un concorso, l’ennesimo lavoro da cui vengo cacciato? Pensiamo anche a ricominciare dopo un lutto: se muore mio padre come faccio a ricominciare? Se muore mia madre? Oppure dopo una malattia che ti deforma, ti cambia? Quindi pensandoci bene non è proprio possibile (ci proviamo, sicuramente, eccome se ci proviamo: ma non è la verità. Non stiamo ricominciando).
Possiamo usare due verbi: continuare e riabilitare che sono due verbi che dobbiamo pensare insieme non come una successione l’uno dell’altro. L’adultera continua la sua vita, ma è una nuova se nella stessa vita di sempre, con le stesse persone, con lo stesso marito, gli stessi volti e le stesse strade. Il verbo riabilitare lo possiamo immaginare pensando ai pazienti amputati.
Quando un paziente viene amputato si mette una prima protesi intera, che non si piega, e per muoversi con la protesi c’è bisogno di una forza che è tre volte la forza che usiamo per muovere la nostra gamba. Quindi le persone amputate devono imparare prima a sapere stare senza la gamba, spostarsi, anche mettersi in piedi, poi ad usare la gamba quella tutta intera, a muoversi con quella e ci vuole tempo, il corpo si deve organizzare. Ma soprattutto il corpo si ricorda di quell’arto, il tuo cervello ti fa sentire come se ancora ce lo avessi. È la sindrome dell’arto fantasma, il cervello se lo ricorda perchè quella gamba ha fatto parte di te per tutta la tua vita e quindi tante volte magari farai un movimento senza ricordarti che non hai la gamba e cadi. Poi i pazienti mettono una protesi che si piega, una che è leggerissima, facilissima da usare, ci vuole meno forza, ti senti piu leggero. E con questa protesi si possono salire le scale, si può fare anche il bagno a mare. Si può fare tutto.
Possiamo fare un parallelismo e dire che la gamba amputata è il tuo peccato, la tua brutta abitudine. La perdita del tuo lavoro, il concorso non superato, il tuo lutto, il tuo fidanzamento o il tuo matrimonio litigioso. E la tua mente sta li a dirti che c’è sempre, anche se lo vuoi sfuggire, e un giorno cadi. Eppure un giorno mentre cadi incontri Gesù. E Lui non ti condanna, ti perdona, ed il perdono è la tua riabilitazione, la tua protesi, e più ti fai perdonare, e più ti perdona, più è facile ricominciare a camminare, cambiare protesi, usare quella che ti fa saltare.
Continuare la tua vita di sempre, con le stesse persone, con il tuo lutto, il tuo litigio, il tuo fallimento, la tua miseria, ma più leggero perché sai che la misericordia di Dio ti alleggerisce ti aiuta a muoverti. È una protesi che tu puoi togliere quando vuoi, perché Dio non ci obbliga. E la amputazione che ti porti, il moncherino che alla sera guardi perchè per dormire te lo devi togliere, sta li per ricordarti una cosa: che la tua storia è importante, e questo è un lavoro quotidiano. Ogni giorno bisogna rimettersi la protesi e ogni sera toglierla. Ha detto Tim Guenard “perdonare non significa dimenticare, ma imparare a vivere con la propria storia. Perdonare è quotidiano, dei giorni è facile, altri giorni bisogna ricominciare da capo. Il perdono è come un viaggio in mongolfiera, se vuoi salire più in alto devi lasciare i pesi”.
Questa è la Pasqua. Questa è la risurrezione! Prendere la nostra storia, accettarla, perdonarla e continuare la nostra vita. Come l’adultera. L’adultera ha tradito, questo non potrà mai cambiare ma il perdono di Dio le da la possibilità. “Neppure io ti condanno. Va’ e non peccare più”. È la parola che ci unisce tutti nella stessa avventura e nella stessa stupita riconoscenza