Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; (Is. 43,1-2)
Questo passo di Isaia ribadisce un concetto fondamentale del cammino di fede di un cristiano: “Non siamo soli”.
Nella nostra quotidianità il Signore, attraverso queste parole di Isaia, ci fa fare memoria dell’importanza che singolarmente ognuno di noi ha ai suoi occhi. Egli stabilisce con noi, suo popolo, una relazione: “ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni!”, come un padre con un figlio ci da un nome e stabilisce in questo legame la nostra appartenenza a Lui.
Ma qual è il nostro rapporto con Dio Padre? Quale tipo di relazione scelgo di avere in libertà nei suoi riguardi?
E come si fa a scoprire di essere figli? È facile dal punto di vista umano, tutti siamo figli di qualcuno. Riflettendo si può dire che è piu facile dirsi figli di una madre, perchè con la madre si ha un legame molto piu viscerale. Posso dire “sono figlio di mia madre” perché mia madre mi ha nutrito; il legame esiste a prescindere dalla relazione. Posso dire di essere di un padre perché mi ha cresciuto. Ho instaurato con lui una relazione. E allo stesso modo Dio è padre perché cresce, nutre in un modo diverso da come potrebbe fare una madre, è un rapporto che ha necessità di una relazione che maturi nel tempo.
La risposta a queste domande è certamente personale, ma risulta sicuramente calzante l’esempio di tale relazione che troviamo nel libro dal titolo: “Più forte dell’odio” di Tim Guenard dove l’autore racconta la sua vita, fatta di abbandono da parte dei genitori, di violenze e di abusi, di solitudine. Nella prima pagina del suo libro scrive: “sono sopravvissuto grazie a tre sogni: uscire dal riformatorio dove ero stato messo, diventare capo banda, uccidere mio padre. Sogni che ho realizzato. Tranne il terzo. Per un pelo…”
Quindi la sua vita è stata alimentata dall’odio verso il padre. Ed era fortemente motivato ad ucciderlo, quando ad un certo punto si è scontrato con una realtà: una realtà di persone fragili, persone con una disabilità. E ha scoperto che esisteva qualcuno che era in grado di amare queste persone che nessun altro amava, che nessun altro poteva amare. E si domanda come si possa amare una persona che nessun altro amerebbe, un debole, si domanda chi potesse essere questa persona capace di tale amore. E con il tempo si è riscoperto figlio, cosa che non aveva mai sentito di essere. E prima di sentirsi figlio dei suoi genitori, si è scoperto figlio di Dio, capace di essere amato per la persona che era, con tutte le sue fragilità e debolezze. Questa consapevolezza lo ha portato a comprendere di essere anche figlio dei suoi genitori terreni.
Nella conclusione del suo libro scrive: “oggi mi batto per essere un buon padre, un buon marito e un buon figlio… di Dio padre.” Dio è padre. Spesso non pensiamo alla paternità di Dio ma soprattutto non pensiamo alla figliolanza, al fatto di poterci comportare con Dio da figli, di poterci rivolgere a Lui come figli. E di questo ne ha dato testimonianza Cristo.
Quando sulla croce quando dice a Giovanni: “Ecco tua madre”, e quando consegna ai discepoli la preghiera del Padre nostro, l’unica a noi lasciata da Lui. Dando a Dio l’appellativo di Padre, di papà di ciascuno di noi. Qui sta la relazione con Lui, la consapevolezza che qualsiasi sia il nostro vissuto, Lui sarà sempre padre. Presenza costante a cui fare affidamento e a cui, quotidianamente, bisogna fare affidamento.
In questo tempo di Quaresima è il momento giusto per riflettere su quando nella nostra vita abbiamo fatto esperienza di Dio come padre e conseguentemente quando ho fatto esperienza di figlio.