Il signor Natale Menzio, un arzillo ex allievo di Pinerolo ultranovantenne, il 30 gennaio 1961 raccontava:
« Ho parlato a tu per tu con Don Bosco soltanto due volte. Ma è stato meraviglioso.
Un mattino del mese di maggio, mentre salivo le scale per portarmi al secondo piano, incontrai Don Bosco. Era la prima volta che mi trovavo di fronte a lui. Mi fissò negli occhi, chiese il mio nome e poi mi salutò con tanto affetto.
Alcuni mesi dopo andò a Roma. Quando ritornò, a Valdocco fu una gran festa. Don Bosco fu costretto a salire al secondo piano e dal balcone salutò tutti lanciando manciate di caramelle. Io quel giorno ero in infermeria ammalato.
Lo rividi il giorno dopo. Appena entrato nell’ampio stanzone dell’infermeria, mi riconobbe subito: “Tu, Menzio, in infermeria?” mi disse. Poi mi salutò con tanta cordialità.
L’indomani ero già guarito, ma avevo nel cuore un grosso interrogativo. Don Bosco mi aveva visto solo una volta e mi aveva riconosciuto. A Valdocco eravamo più di 600 e in quei mesi il Santo aveva incontrato nei suoi viaggi migliaia e migliaia di ragazzi.
Quel mattino aspettai Don Bosco al fondo delle scale. Dovevo sapere ad ogni costo. Mi avvicinai al Santo, mentre scendeva per la Messa, accompagnato da Don Rua. “Don Bosco, come ha fatto ieri a riconoscermi?”. Il Santo sorrise. Poi mettendomi la mano sul capo, soggiunse: “I miei figli li conosco dappertutto” ».
Ecco una finezza della carità: il saluto. Soprattutto quando vi si può aggiungere il nome. « Ricordatevi – scrisse Dale Carnegie ne L’arte di farsi degli amici – che il nome di un individuo è per lui il più gradito e il più importante di tutto il vocabolario ».
Tra la persona e il nome corre un’identificazione misteriosa. Il nome evoca la persona e la rende in certo modo presente col suo io più profondo. Ecco perché il nome esige lo stesso rispetto che la persona. Quando un ragazzo si accorge che il suo insegnante o il suo educatore non ha imparato e non conosce il suo nome, prova l’impressione di essere stato dimenticato. Se poi gli storpiano il nome, ne prova un’intima irritazione: soprattutto quando il fatto si ripete.
Che dire allora della mania di affibbiare dei soprannomi? Spesso questa mania rivela l’intenzione di diminuire e di umiliare gli altri. E’ stato notato che il soprannome è quasi sempre l’arma dei deboli che prendono, in tal modo, la loro rivincita in maniera sleale contro quelli da cui dipendono. A ogni modo, è sempre un indice di animo volgare. Più si discende nella scala sociale, e più l’uso dei soprannomi diventa frequente.
Tristezza di chi si sente privo del proprio nome e non è altro che un numero. « Un giorno – scrisse un giovane operaio – andai a vedere un mio amico in un reparto dell’ospedale. Quale fu la mia sorpresa nel sentire che il mio amico degente da tre mesi in quella stessa sala, veniva chiamato col suo numero. Un numero è avvilente, non ha personalità ».
Il ricordare i nomi dei propri dipendenti conferisce a un dirigente, a un capo azienda, a un educatore, un prestigio straordinario. Napoleone provocava l’entusiasmo dei suoi soldati e otteneva da loro i massimi sacrifici
grazie all’astuzia con cui si faceva dire i nomi di coloro che egli voleva felicitare e ricompensare per qualche azione di rilievo. Si era costruito la leggenda di conoscere personalmente ciascuno dei suoi numerosissimi soldati.
Il ragazzo è felice di venire chiamato per nome. Per lui, il suo nome è la cosa più bella che esista. Non storpiategli mai il nome. Volete conquistarvelo? Fate come faceva Don Bosco: salutatelo per nome.