Quante volte alcuni eventi della vita ci caricano di ottimi propositi, ma poi alla prima difficoltà, cediamo e torniamo al punto precedente. Anche nella nostra vita Cristiana, quante volte pensiamo di aver fatto tesoro di quegli insegnamenti, di quella esperienza di condivisione e poi tornando allo scorrere della nostra vita quotidiana, fatta di preoccupazioni, rapporti difficili, debolezze, ci sembra di ritornare a uno stato precedente e ricostruiamo quel muro separatorio tra il fare i Cristiani ed essere Cristiani.
L’adultera, tornata a casa, dopo essere stata salvata da Gesù dalla lapidazione atroce, avrà smesso di commettere adulterio. Quell’incontro le avrà cambiato la vita davvero e in una maniera definitiva, se questo è possibile?
Uno strumento di cui ci possiamo avvalere è la contemplazione: fermarsi a contemplare, cioè a “guardarsi intorno” serve proprio per conservare, nella dispersione della vita quotidiana, la permanente unione con Dio e questa unione è in grado di trasformare tutto il nostro essere. Contemplare è un modo per ricordare, per riportare al cuore, affinchè esso sia illuminato, eliminando la tristezza su cui si è concentrato il suo sguardo. La contemplazione è un grado (molto elevato) di PREGHIERA.
Diceva Don Bosco, infatti:
“Chi non prega non può perseverare nella virtù” e citando Sant’Agostino diceva: “Chi impara a ben pregare, impara a ben vivere”.
Ma che cosa si intende per preghiera? Perché dovremmo pregare o perché sentiamo il bisogno di pregare?
Etimologicamente, il termine preghiera è sicuramente legato all’atto del domandare, del chiedere. Ma che cosa si può chiedere? Ci sono cose lecite, cose meno lecite? Possiamo chiedere tutto indiscriminatamente o ci sono dei limiti?
Don Bosco, a tal proposito diceva: “Quando preghi osserva un ordine di richieste: domanda in primo luogo i beni spirituali, il perdono dei peccati, la luce per conoscere la volontà di Dio, la forza per mantenerti nella sua grazia; poi chiedi la salute fisica, la benedizione sulla tua famiglia, l’allontanamento delle disgrazie e la sicurezza di un lavoro…”.
Tale elenco potrebbe non risultarci molto familiare sia per la tipologia di richieste menzionate sia per l’ordine con cui vengono presentate, e se a questo aggiungiamo che, oltre all’atto della richiesta, per preghiera si intende “l’elevazione della mente a Dio per lodarlo e per chiedergli cose convenienti alla salvezza eterna”, ecco allora che il nostro ideale di preghiera, legato alla recitazione di formule, molto spesso finalizzate all’ottenimento di interventi miracolosi, che siano in grado di far andare le cose esattamente come vogliamo noi, inizia a vacillare. Ma con questi presupposti, perché dovremmo desiderare di pregare?
Don bosco diceva che: “La preghiera è il primo alimento dello spirito, come il pane è il cibo per il corpo”. Questo ci dice che è una cosa indispensabile: come il cibo è indispensabile alla sopravvivenza del nostro corpo, se non alimentiamo la nostra anima, essa muore. Ma quanto ci importa della nostra anima? O per dirlo in altre parole, della nostra vita spirituale?
L’uomo di tutti i tempi ha una naturale tendenza a perdere il senso della propria anima, perché è molto più semplice occuparsi e prendersi cura di ciò che si può toccare e vedere, come il corpo, piuttosto che occuparsi di qualcosa che non si può toccare e su cui gli effetti positivi possono essere soggetti all’interpretazione. Già alla sua epoca, Santa Teresa D’Avila predicava: “ritroviamo l’anima”, aggiungendo che per ritrovarla era necessaria appunto la preghiera, intesa non come un insieme di parole pronunciate, ma come rapporto con Dio. Ed è proprio l’alimentazione della nostra vita spirituale, intesa appunto come rapporto con Dio, che permette di ottenere il grande beneficio di non subire più gli eventi della vita, anche quella che ci fa male e questo può accadere soltanto riponendo una grande fiducia in Lui.
E’ la fede la base della preghiera: la fede è il punto di partenza non il punto di arrivo.
Ma come può accadere che questo rapporto di fiducia ci permetta di non subire più gli eventi della vita, se son proprio questi a minare la nostra fede, a insinuare il dubbio nelle nostre menti che a Dio in realtà non importa nulla, che non c’è.
A un certo punto Gesù, prima della Sua Passione, porta Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor e lì avviene la Sua Trasfigurazione, evento che apre i cuori e le menti dei discepoli, al punto che non vorrebbero scendere più da quella montagna «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». La fatica di scalare quella montagna è servita ai discepoli perchè una volta arrivati in cima riescono a ottenere una visione di insieme.
Quando incombe un evento negativo nel nostro quotidiano, siamo portati a chiuderci su esso, a non lasciare spazio a null’altro, ma se guardiamo troppo da vicino qualcosa, se ci concentriamo solo su un dettaglio, siamo portati a pensare che tutta la nostra vita giri attorni ad esso e dimentichiamo che quel dettaglio in realtà è inserito in un contesto più grande, in una panoramica che gli ridà senso.
La preghiera, intesa come relazione autentica con Dio, ci fa recuperare questa visione di insieme, a prendere la giusta distanza per inglobare nuovamente tutto. Spesso, apparentemente non cambia nulla negli eventi che ci capitano, ma cambia il nostro modo di guardarli, perchè sono i nostri occhi a essere trasfigurati e lo sono all’interno della realtà che viviamo. Questo fà sì che non ci sia alcun distacco tra la nostra vita “normale” e la nostra vita da credenti, perchè Dio non è una sovrastruttura della nostra vita ma fa parte della normalità della nostra vita.
E in quest’ottica di relazione in cui riponiamo la nostra piena fiducia, noi Cristiani abbiamo a disposizione una preghiera potentissima, espressione del rapporto più grande che possiamo avere con Dio: l’Eucarestia.
Nella relazione con noi, Dio “ha messo in gioco” il Corpo e il Sangue di Suo Figlio. Quale persona con cui abbiamo una relazione sarebbe disposta a giocare così tanto per noi? E noi quanto siamo disposti a giocare così tanto? Esiste un parametro: le nostre relazioni con il prossimo. Se vogliamo capire qualcosa di Dio dobbiamo sempre prendere sul serio le relazioni che abbiamo al nostro immediato fianco: “come fai ad amare Dio se non ami tuo fratello? Come fai ad amare Dio che non vedi e non il tuo fratello che vedi?”
Il nostro saper stare in comunità è la misura della nostra fede. A volte per guarire qualcosa della nostra vita, il concentrarci sulle ferite degli altri, ci aiuta proprio a recuperare quello sguardo d’insieme, a evitare di concentrarci su noi stessi. Se ci apriamo agli altri, guariamo anche noi. Il far parte di una comunità ci permette di fare quella scalata sul Tabor e recuperare la visione di insieme, perché come ha detto un sacerdote durante una Catechesi “questo cammino si fa in cordata”: si scala tutti insieme legati alla medesima corda, non ognuno per fatti suoi!
Ed è così che quanto detto all’inizio, a proposito della preghiera, diventa qualcosa di meno ostile, perché quando i nostri occhi sono così trasfigurati, la lode a Dio è automatica e la richiesta dei beni spirituali è antecedente a quelli terreni, perché è grazie ai beni spirituali che le necessità terrene acquistano un altro senso.
Papa Francesco ha detto che la preghiera non è né una buona pratica per mettere pace nel cuore come un’aspirina, nè un modo per ottenere quanto necessario, come si fa in un negozio. La preghiera è opera di misericordia spirituale che vuole portare tutto al cuore di Dio.